Non è chiaro se ciò dipenda da una reale crescita della domanda o se sia soprattutto frutto delle varie forme di incentivi a diversi livelli, offerti sia dall’Ue, sia dai singoli Paesi o Regioni (con contributi alla produzione attraverso i piani di sviluppo rurale o con aiuti alla promozione mercantile, alla costituzione di nuovi consorzi, ecc.). Secondo una recente indagine sui “canali di distribuzione commerciale del biologico” condotta da Nomisma e Sinab (Servizio informativo del Mipaafi), tra il 2010 e il 2012 le vendite di prodotti biologici sarebbero aumentate in complesso del 13,6% (il settore alimentare vi avrebbe inciso per il 90,2%, di cui appena il 20% costituito da prodotti freschi, frutta e ortaggi, contro il 9,4% del biologico non alimentare). Tuttavia, la crescita del settore produttivo, nel triennio considerato, è stata alquanto inferiore oppure, in varie regioni, non c’è stata affatto, segno evidente che il mercato potrebbe essere stato alimentato da crescenti importazioni di prodotti bio.
Ma, come precisa l’esperto R. Pinton, i dati sulle superfici biologiche includono anche parte di quelle soggette a misure agro-ambientali, per cui non ci può essere relazione diretta fra superfici e volumi di vendita delle produzioni biologiche. Merita dunque conto una conoscenza, sia pure grossolana, della produzione estera, per sapere chi sono i nostri “competitors”. Avvalendoci di un’accurata indagine (2013), l’unica accreditata sul piano statistico internazionale, condotta da quattro istituzioni qualificate (Ifoam, con sede in Germania; Fibl e Seco svizzere; Itc di Geneva-USA e l’Ufficio comunicazioni di Biofach, nota manifestazione fieristica di settore che si tiene in Germania), si riporta una sintesi grafica (Figg. da 1 a 7) della ripartizione mondiale delle superfici e del valore commerciale delle produzioni agricole biologiche, indicando anche le rispettive aree geografiche di provenienza. Da questi dati risulta che l’Italia è al 7° posto mondiale con 1,11 milioni di ha di colture bio, la cui incidenza sulla superficie coltivata è dell’8,7% (10° posto dopo Australia 12 Ml h, Argentina 4,3 Ml ha, USA con 2 Ml, Brasile 1,8, Spagna e Cina 1,4 Ml ciascuno); i produttori italiani, al 2012, erano circa 42.000. Il peso economico italiano nel mercato globale non supera però il 3% (1.550 Ml €); l’Italia, sempre in valore del comparto, segna il quinto posto (il primato va agli USA con 20,2 Ml € seguiti dalla Germania con 6,0 Ml €). In termini di consumo pro-capite siamo però in posizioni piuttosto arretrate in Europa, superati da almeno dieci Paesi, a cominciare dalla Svizzera. Da notare che in Italia l’incremento del fatturato è aumentato in otto anni di 500 Ml €, molto meno di Germania e Francia (che hanno raddoppiato le vendite). Anche in Spagna la crescita è stata assai marcata, più che in Italia. A livello mondiale le specie arboree più diffuse, come superfici, sono caffè (24%) e cacao (13%), ma buona è anche la posizione di olivo (18,6%), noci e altra frutta secca (9,9%), uva (8,2%) e poi agrumi e altre frutta (28,3%). Per quanto riguarda le varie specie in biologico, risulta che per l’olivo il primato mondiale spetta all’Italia con 141.000 ha (dati 2012), seguita da Spagna e Tunisia, molto distante la Grecia; per la vite è davanti la Spagna con 57.200 ha, l’Italia è seconda con 52.300 ha e la Francia terza con >50.000 (dati 2010), mentre per gli agrumi c’è una netta prevalenza italiana con 23.400 ha (dati 2012) seguita da Messico, USA e Spagna con oltre 5.000 ha ciascuna. Infine, a livello di specie da frutto temperate, tutte assieme, l’Italia è al primo posto con 22.000 ha (dati 2012), seguita da Polonia (7.500 ha), Turchia (7.000 ha), Francia, Tunisia, Argentina, Cechia, Moldova, Cina con oltre 4.000 ha ciascuna. La specie frutticola principale in coltura biologica (dati medi mondiali) è il melo, con il 43% del totale, seguito da albicocco (7%), susine, pere, ciliegie, pesche, tutte con incidenza intorno al 6%. Ciò premesso, e prescindendo dagli aspetti economico-commerciali (oggetto della nota di Fabio Lunati presentata in seguito), vorremmo considerare in questo articolo alcuni problemi oggetto di un ampio e controverso dibattito sulla stampa specializzata, ma anche sui media addetti alla pubblica informazione. Purtroppo, pur attenendoci ad informazioni documentate, dobbiamo subito premettere che in fatto di “biologico” non esistono verità assolute, tanto che anche le indagini pubblicate da riviste referenziate portano spesso a risultati, se non contrapposti, quanto meno aperti a dubbi interpretativi. Vediamo di seguire un certo ordine. I punti da trattare sono i seguenti: 1. rischi e problemi di coltivazione e difesa, adeguamento dei disciplinari; 2. rese produttive; 3. utilizzo di materiale genetico resistente o idoneo all’ambientamento; 4. salvaguardia qualitativa del prodotto; 5. problemi di controllo, certificazione e possibili frodi; 6. ricerca e sviluppo pro biologico.
1. Rischi. È provato che per alcune specie arboree la coltivazione biologica è piuttosto difficile da realizzare. Lo dimostrano i dati produttivi; fanno eccezione, in particolare, olivo, vite e agrumi che, abbastanza frequentemente, possono fornire buoni risultati economici un po’ ovunque. Non così pomacee e drupacee, che presentano accettabili rischi di coltivazione solo in aree molto vocate, con bassa massa critica di patogeni (es. meli in Val Venosta ad altitudine fra 400 e 900 m). Secondo le nostre esperienze, nella pianura emiliano-romagnola il rischio di perdita di prodotto per malattie è molto alto e anche la qualità ne può essere deprezzata per danni non soltanto estetici ai frutti. I disciplinari di produzione, per quanto ammettano preparati non sempre abbastanza efficaci (per es. composti rameici, polisolfuri e zolfi contro malattie fungine e batteriche, compost e prodotti organici per la fertilizzazione), non garantiscono di norma un pieno successo, ancorché si faccia uso ormai corrente di feromoni e della confusione sessuale contro i lepidotteri e, ove possibile, della lotta biologica con insetti utili (rilascio di antagonisti prodotti da bio-fabbriche).
2. Rese produttive. Le rese unitarie sono più basse di quelle convenzionali o integrate, anche se non vi sono danni nella difesa. Il calo produttivo può andare dal 10 al 30%, a prescindere dai maggiori oneri previsti dalla difesa o dalla gestione del suolo e dell’albero (non potendo usare erbicidi, bioregolatori, ormoni, concimi chimici, ecc.) o dall’uso di mezzi meccanici invece di quelli chimici (es. diradamento meccanico dei frutti). Di conseguenza, occorre che il prezzo di vendita sia proporzionalmente più alto del normale. A volte, nonostante l’attestato di certificazione organica ben visibile per il mercato, i prezzi sono livellati con quelli dei prodotti convenzionali, e ciò può mettere a rischio il risultato economico dell’azienda. Le motivazioni ideali o quelle ecologiche e salutistiche di una parte dei consumatori spesso non bastano per garantire facilitazioni nella vendita e quindi nella redditività della coltura.
3. Qualità del prodotto. Questo è un tema controverso, perché non è affatto assodato, sul piano scientifico, che i prodotti biologici siano dotati di valore qualitativo superiore. I pareri sono diversi, anche opposti: secondo uno studio ministeriale condotto da CRA-Inran (Progetto Bioqualia, 2013), la bibliografia internazionale sul confronto biologico-convenzionale (emersa dalla consultazione delle ricerche e sperimentazioni che vanno dal 2005 al 2011), indicherebbe che i prodotti biologici sono “qualitativamente superiori” per un maggior contenuto di vitamine, antiossidanti (fenoli e carotenoidi) e sostanze salutari, almeno in frutta, ortaggi e latte. Un’altra indagine, condotta dall’Università di Palermo, ha poi dimostrato che la filiera biologica comporta un minore impatto sui costi energetici (specie se la filiera è corta, il cosiddetto km zero) e minori emissioni di gas serra, specie nella fase di distribuzione del prodotto. Dunque, tutto sarebbe a favore del biologico. Questi dati sono però contraddetti da approfondite indagini condotte in USA dagli studiosi di scienze alimentari della Stanford University e dal John Hopkins Children Center (2013), secondo i quali “non ci sono evidenze scientifiche che il cibo organico sia migliore dell’altro”. In modo altrettanto esplicito è la conclusione sui valori nutrizionali dello stesso cibo: “non ci sono contenuti maggiori che rendano migliore il cibo naturale”. È però vero che la percezione psicologica dei genitori è più rassicurante verso le pappe biologiche e altri preparati bio e quindi la richiesta di prodotti biologici in USA è in costante crescita, sebbene il prezzo per l’acquisto sia mediamente superiore del 30%. Ad analoghe conclusioni giunse qualche anno fa (e questa Rivista ne fece menzione) un’approfondita indagine inglese a livello della letteratura internazionale più accreditata. Anche all’Università di Bologna un ciclo triennale di sperimentazione in campo di qualche anno fa su mele e pesche, oltre a confermare la scontata riduzione produttiva degli impianti in biologico e l’insufficienza dei mezzi di difesa consentiti dai disciplinari, non evidenziò particolari differenze nei parametri qualitativi dei frutti, salvo quelli dipendenti da fattori agronomico-ambientali che, come ben sanno i tecnici, variano indipendentemente dal metodo di produzione (biologico / convenzionale) e possono riflettersi sulla qualità dei frutti (per es. rapporto fra numero dei frutti e pezzatura, oppure carico produttivo e residuo secco rifratto metrico, ecc.). Carlo Petrini, da sempre assertore del valore aggiunto delle colture biologiche, sostiene (2013) che le ricerche che dimostrano la “sostanziale equivalenza” fra cibo biologico e tradizionale non lo soddisfano abbastanza, perché sono di tipo “riduzionista”: non basta infatti dire “cibo senza residui”, ma occorre considerare il molto di più offerto sul piano ecologico dai prodotti naturali, perché col biologico l’approccio all’agricoltura è sistemico, in quanto coinvolge tutto l’ecosistema. Sul piano applicativo i produttori biologici lamentano però spesso che la visibilità e l’apprezzamento commerciale dei loro prodotti non siano sufficientemente tutelati dalla certificazione, peraltro piuttosto costosa.
4. Varietà resistenti. Purtroppo, questo è un fronte dove il biologico non riesce a sfondare. Il livello di “resilienza” del frutteto e del vigneto dovrebbe essere fondamentale per il successo. A differenza di altri Paesi europei (soprattutto Svizzera, Germania e Repubblica Ceca) nei quali il biologico si fa strada, più che da noi, in frutticoltura, grazie alle nuove varietà create a questo fine (cioè poco soggette a malattie, resistenti in particolare, per il melo, alla ticchiolatura, all’oidio e al “fire-blight”), in Italia gli impianti che adottano il biologico sono in genere costituiti con varietà tradizionali, perché i frutti sono ben riconoscibili e richiesti dal mercato (ovviamente sono anche più suscettibili alle malattie in genere). Non vale più ormai il vecchio luogo comune che, almeno per il melo, le varietà cosiddette resistenti (e sono ormai tante) sono meno belle e meno buone. È dimostrato che, specialmente a livello di mele rosse, il miglioramento genetico ha fatto passi da gigante, ma in pratica il 90% circa dei frutticoltori biologici preferisce orientarsi sulle varietà ufficiali della lista varietale e non sulle resistenti. Forse occorrerebbero incentivi pubblici ed un’attività promozionale in campo e mercantile, che nessuno dei grandi distributori (comprese GDO) vuole affrontare.
5. Controlli e frodi. Il biologico, in Italia, ha dovuto superare vari, grossi contraccolpi mediatici, scandalistici, ovvero la scoperta da parte di Carabinieri e Guardia di Finanza di colossali frodi, fra cui ricordiamo qui quella del 2011 e l’altra più recente del 2013. In entrambi i casi si trattava di grossi quantitativi di prodotti, soprattutto cereali, ma anche di prodotti ortofrutticoli, falsamente spacciati per biologici, mentre non lo erano. Queste grosse truffe, purtroppo, sono avvenute per il mancato pieno funzionamento dei controlli nei confronti dei quali le associazioni di categoria dei produttori biologici si ritengono vittime (es. leggansi le dichiarazioni del dr. Paolo Carnemolla dell’Aiab), rivendicando maggiore severità ed efficienza per chi deve fare rispettare la legge. Queste carenze, perciò, vanno a danno di chi opera onestamente. Finora lo strumento dei marchi di garanzia non è riuscito a dare sufficiente copertura e non è bastato a prevenire le contraffazioni. Circa l’utilizzo dei marchi ed il loro livello di fidelizzazione indotto nei consumatori rimandiamo allo scritto di Claudio Scalise in questo stesso numero. 6. Ricerca e sviluppo. Il futuro del biologico si giocherà sul terreno delle nuove tecnologie e sono molti i centri di ricerca che, in Europa e nel mondo, lavorano a questo fine; la soluzione non può pertanto essere quella del ritorno all’antico, alla naturalità colturale e genetica del passato e nemmeno quella basata sul solo uso dei mezzi di produzione ammessi dagli attuali disciplinari di difesa (es. solfato di rame e polisolfuri) e relative tecniche di concimazione (letame, residui organici, compost, ecc.). Sono quindi necessari e attesi nuovi supporti tecnici per le future scelte del biologico. Intanto, è fondamentale arrivare presto ad un miglior uso dei mezzi disponibili e delle tecniche di protezione e prevenzione delle malattie; poi, sarebbe opportuno diffondere nuove varietà create appositamente, dopo averne saggiato le caratteristiche qualitative e commerciali, l’adattabilità ambientale allo stress e alle avversità, valutandone anche le nuove acquisizioni genetiche. Con queste saranno modificate e ottimizzate anche la gestione del suolo e il governo degli alberi (attraverso idonee tecnologie di fertilizzazione e irrigazione insieme) e le operazioni del post-raccolta sui frutti; si vedano i pareri e le speranze espresse da diversi esperti nei box allegati a questo articolo. Pertanto, senza sostegno alla ricerca non potremo risolvere i problemi del biologico in prospettiva futura; dovranno essere escogitati nuovi mezzi, magari rivoluzionari, come lo sono stati in passato il Bacillus thuringiensis (sul mercato da oltre sessant’anni) e i feromoni usati ormai ovunque con successo, sia per il monitoraggio, sia per le trappole della confusione sessuale (vedi lotta a Carpocapsa e Cidia). Si può immaginare anche qualcosa di più: il novero dei mezzi biologici della difesa (biocidi e biopesticidi) potrebbe arricchirsi di nuovi preparati derivati da applicazioni biotecnologiche che, però, almeno concettualmente, in prima istanza saranno. verosimilmente rifiutati. Non sarà facile, cioè, ammettere l’immissione fra i mezzi biologici di prodotti non squisitamente tali secondo l’accezione comune. Ci possiamo anche chiedere: qualora siffatti mezzi “organici” fossero capaci di combattere popolazioni di insetti o di patogeni (non altrimenti controllabili con gli attuali mezzi tradizionali di difesa), senza modificare la biodiversità ambientale e senza lasciare residui, quali decisioni sarebbero prese a livello politico-organizzativo? Aspettiamo per vedere.
Allegati
- Scarica il file: Frutticoltura biologica: crescita lenta ma potenzialità in aumento