Tutte le proiezioni attuali ci dicono che dovremo produrre sempre più cibo dei livelli attuali, in un orizzonte di risorse sempre più limitate: suolo, acqua, fertilizzanti, energia. Alcune addirittura, come il Fosforo, potrebbero esaurirsi prima ancora che si raggiunga la fatidica soglia dei 9-10 miliardi di abitanti del pianeta previsti per il 2050, cioè entro soli 35 anni da ora.
Tutto ciò ha un nome: “agricoltura sostenibile”.
La disponibilità di terreni agricoli è già da anni un problema in alcune nazioni densamente popolate. L’esempio più macroscopico è la Cina, che deve sfamare il 25% dell’umanità, con solo il 10% dei terreni coltivabili.
L’acqua irrigua sarà il nuovo “oro blu” del prossimo futuro, quindi diventerà una risorsa strategica più importante di quanto sia oggi il petrolio.
Negli ultimi 30 anni si sono sempre più affermate a livello mondiale, nel settore della produzione protetta di ortaggi, nuove tecniche di coltivazione “fuori suolo” ad alta efficienza che, per ovviare agli inconvenienti sopra citati, fanno uso di substrati artificiali o di sistemi addirittura senza substrati (NFT, Floating system, idroponica o acquaponica, etc.).
Vi sono Paesi a serricoltura molto avanzata, quali l’Olanda, dove queste tecniche rappresentano ormai da tempo, per molte colture, il 100% del settore. Ve ne sono altri a serricoltura emergente, ad esempio Turchia o Russia, dove i nuovi investimenti serricoli, anche se di dimensioni impressionanti (e senza alcuna esperienza pregressa!), nascono già quasi tutti con colture fuori suolo.
Che “fuori suolo” ci possiamo quindi aspettare nell’“agricoltura che verrà”? Con i dati di oggi vediamo che sicuramente aumenteranno: la coltivazione in substrati inorganici e “industriali” (lana di roccia, perlite), ma anche organici e “naturali” (fibra di cocco); il riutilizzo degli stessi per più anni; il riciclo di acqua e fertilizzanti (“cicli chiusi”); l’uso di sistemi senza substrato, sempre a ciclo chiuso; la coltivazione “multi-strato”, purché si trovino soluzioni per ridurre i consumi energetici.
L’Italia, nonostante sia stata tra le prime nazioni a sperimentare i sistemi fuori suolo, alcuni anche a livello pionieristico (anni ’60), non ne ha mai visto fino a oggi una grande diffusione, rispetto ad altri Paesi e al totale delle colture.
Negli ultimi anni, tuttavia, soprattutto come conseguenza di limiti sempre più stringenti all’uso di geodisinfestanti, sembra che la tendenza si stia finalmente invertendo, anche se un vero e proprio boom ancora non si vede all’orizzonte.
Cerchiamo quindi di analizzare i motivi di questo scarso entusiasmo dei serricoltori italiani per il fuori suolo, fino a ora, e di questo nuovo promettente trend. Gran parte degli esperti, infatti, concorda che il fuori suolo estenderà la sua presenza: permette di aumentare rese e qualità; se viene adottato il ciclo chiuso, è anche in grado di minimizzare l’uso di acqua e fertilizzanti, oltre che di ridurre o quasi azzerare l’inquinamento ambientale.
LE AZIENDE HI-TECH
Se da una parte sembra assai logico che un nuovo investimento in una serra “hi-tech”, non possa proprio fare a meno del fuori suolo, dall’altra non è così scontato per serre di livello tecnologico medio - basso.
Quando l’agricoltore ha completo controllo dei principali fattori produttivi, cioè clima, lavoro e difesa, il fuori suolo è fuori discussione. Intendiamo cioè una serra dove nessuno degli elementi fondamentali della gestione e del bilancio possano agire come “fattore limitante” (legge del minimo).
Per quanto ottimale e fertile possa essere un terreno, una volta che ci si costruisce sopra una serra, per massimizzare gli utili dell’investimento, sono inevitabili la mono-coltura ripetuta e l’abbandono delle rotazioni agrarie. Ne consegue che anche il miglior terreno in brevissimo tempo riduce la sua “fertilità ottimale”, anzi diviene un focolaio ricorrente di patogeni radicali, che solo pesanti, continui (e costosi) trattamenti di sterilizzazione possono contenere.
Il fuori suolo, ben gestito ovviamente, risolve egregiamente questi problemi, grazie all’adozione di substrati sterili, facilmente sostituibili o trattabili, in caso di infezioni radicali.
Il perfetto controllo della nutrizione minerale da parte dell’operatore, tramite soluzioni complete di macro- e micro-elementi, controllo di pH, EC e regime idrico nella rizosfera, adattabili per composizione e modalità di somministrazione ad ogni fase fenologica delle colture, permette di estrinsecare al massimo rese e qualità, purché ovviamente non diventino limitanti altri fattori (luce, CO2, etc.).
La differenza tra le colture fuori suolo e quelle tradizionali è tutta qui e non è poco. In condizioni normali, ovvero confrontando una coltura ottimale tradizionale, con una pure ottimale in fuori suolo, il vantaggio per le orticole vale mediamente il 20% in termini di resa, ma spesso anche di più in termini di qualità (contenuto di sostanza secca, colore, sapore, consistenza, shelf-life, etc.). Se il confronto avviene con un terreno non ottimale, ovvero adibito già da molti anni a mono-coltura, quindi affetto da patogeni radicali o degradazione della struttura chimico-fisica, il vantaggio può arrivare anche al 50% o più.
In serre hi-tech, pertanto, ha poco senso l’obiezione circa i maggiori investimenti necessari per passare al fuori suolo. Visto che una simile struttura, per essere efficiente, deve disporre comunque di impianti di fertirrigazione e irrigazione a goccia, anche in presenza di colture tradizionali, l’unica vera differenza è l’acquisto del substrato, che incide assai poco sul totale dell’investimento (1-2%). Se quel 20% di resa media in più dovesse valere, ad esempio nel caso del pomodoro, anche solo 3-4 kg/m2, ecco che l’investimento è già stato ripagato, senza contare i benefici della migliore qualità sul prezzo medio di vendita, che valgono ancora di più.
Non solo, abbiamo oggi ampia dimostrazione pratica che un substrato riutilizzato per 3 anni, se si fanno i calcoli in modo appropriato, alla fine ha un costo di gestione inferiore alla coltura tradizionale su terreno. Non ha senso quindi rifiutare il fuori suolo, né dal punto di vista tecnico, né da quello economico.
IL MEDITERRANEO
Diverso è l’impatto del fuori suolo su strutture a “tecnologia medio – bassa”, tipiche dei climi mediterranei, che rappresentano la maggior parte del nostro patrimonio, ovvero serre di ridotto volume unitario, senza o con insufficiente sistema di ventilazione, assenza di impianti di riscaldamento, o limitati a soluzioni di emergenza, per non parlare della concimazione carbonica, tanto fondamentale, quanto completamente sconosciuta ai nostri coltivatori.
Anche qui è bene fare chiarezza, in quanto si è spesso incolpata, a torto, la carenza di conoscenze specifiche o di assistenza tecnica, per spiegare la mancata diffusione del fuori suolo in Italia. In parte è stato vero, soprattutto fino a una decina di anni fa, ma è anche mancato un approccio imprenditoriale al problema.
In Olanda, ad esempio, nazione indiscutibilmente leader del settore, dove risiedono gli agricoltori con le massime prestazioni mondiali per gran parte delle colture protette, quasi nessun agricoltore si è mai occupato di formulare o studiare nei dettagli le soluzioni nutritive. L’unica cosa che l’imprenditore olandese sa, in genere, è che ogni una o due settimane il proprio capo-serra preleva campioni di soluzioni o substrato, li invia a laboratori o consulenti specializzati e, a costi assolutamente compatibili coi bilanci colturali, ottiene di ritorno in uno, massimo due giorni, sia le analisi, che le formule ricalcolate e adattate alla varietà coltivata e fase fenologica.
L’Italia, al contrario, è stata spesso, inspiegabilmente, il mondo del “fai da te”, con le ovvie tragiche conseguenze. Spesso hanno fatto la propria parte anche alcuni tecnici poco competenti della materia, ma oggi il problema appare superato, quindi anche il “fai da te” non ha più ragione di esistere. Se poi paragoniamo i costi di un servizio di analisi o consulenza professionali, ai danni che genera l’uso approssimativo del fuori suolo, ecco che l’incidenza sui costi aziendali è davvero ridicola.
Per chi volesse approfondire, comunque, sono oggi disponibili in abbondanza manuali, corsi, software di calcolo, tecnici preparati, quindi non ci sono più scuse per un uso corretto del fuori suolo in Italia, anche in strutture semplici ed economiche.
SENZA SUBSTRATO
La coltura in substrato, quindi, può essere alla portata di ogni serricoltore. Nuovi orizzonti sono già stati aperti, tuttavia, dalla realizzazione delle prime “fabbriche dell’insalata” (“salad factories”), in cui si fa uso di impianti senza substrato, soprattutto NFT (“Nutrient Film Technique”) e Floating System.
In questi sistemi le piante sono supportate da canalette o pannelli galleggianti, l’alimentazione idrica e minerale è fornita da soluzioni ricircolanti o statiche, mentre l’ossigenazione delle radici è garantita o dal flusso continuo delle soluzioni stesse (NFT), o dalla loro ossigenazione forzata (Floating).
Con il termine “acquaponica”, invece, soprattutto in Nord America, ci si riferisce alla coltivazione combinata di ortaggi e pesci, in genere tilapia, all’interno di sistemi NFT, ma soprattutto floating.
In Belgio e Olanda l’NFT è una realtà collaudata da ormai più di 15 anni per la coltura di lattughe da cespo, ma è usato anche nei Paesi scandinavi (soprattutto Danimarca e Svezia), Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia e Cile.
E’ basato su canalette in PVC chiuse, in cui una soluzione nutritiva, completa di macro- e micro-elementi, scorre in continuo o a intermittenza sul fondo (il termine “film” si riferisce infatti al sottile strato di soluzione che scorre nelle canalette). Le radici delle piante si sviluppano per tutto il ciclo colturale in una “zona di transizione” tra acqua e aria, in modo da venir rifornite efficacemente sia di acqua e nutrienti, che di ossigeno per la respirazione. La soluzione può anche essere riscaldata d’inverno e raffreddata d’estate, in modo da tenere sempre le radici alla temperatura ideale.
La soluzione viene stoccata, recuperata e reintegrata continuamente in un serbatoio generalmente interrato, quindi è un sistema totalmente a ciclo chiuso, che minimizza l’uso di acqua e fertilizzanti, senza perdite nell’ambiente. In quasi tutti gli impianti NFT si fa uso anche dell’illuminazione fotosintetica supplementare.
La produttività varia molto a seconda della pezzatura finale richiesta dal mercato. In Belgio, ad esempio, con cespi di lattuga da 400-450 g, si producono 1,8-2 milioni di pezzi per ettaro all’anno (200 cespi/m2). In Scandinavia, invece, dove si preferiscono cespi di 160-200 g, si può tranquillamente arrivare a rese di 5-5,5 milioni di pezzi per ettaro all’anno.
Per la coltivazione di prodotti da foglia e da taglio (“baby leaf” o “insalate di IV^ gamma”), è invece più indicato il “Floating System”.
VERTICAL FARMS
Il successo di NFT e Floating sta aprendo la strada anche alle prime “Vertical Farms”, cioè strutture in cui è praticata la coltivazione “multi-strato” (“multi-layer”). In questo caso è però obbligatoria l’illuminazione artificiale integrale tramite lampade a LED o, in futuro, di lampade al plasma.
Alcuni prototipi sono già stati realizzati ad esempio in Giappone, Corea del Sud, Singapore, Olanda, Stati Uniti, mentre altri sono in via di studio e costruzione (Svezia, Canada, Dubai, etc., ma anche Italia).
Nella maggior parte dei casi le colture più studiate e testate fino a ora sono state lattughe ed erbe aromatiche, in particolare basilico. Il motivo è semplice: sono colture compatte, a sviluppo orizzontale e ciclo breve, quindi ben si prestano a sviluppare sistemi fuori suolo a ciclo chiuso continuo e ad elevata automazione.
A volte si tratta di sistemi “statici”, ovvero con piani di coltura fissi, mentre in altri casi si è puntato su modelli “mobili” di vario tipo: tubi rotanti attorno a un asse centrale; bancali mobili estraibili; canalette fissate a strutture triangolari (“A-frame”) in lenta rotazione verticale, etc.
Molti sono i vantaggi di questi impianti: massimo utilizzo del suolo; rese e qualità altissime, risparmio fino al 90% dell’acqua irrigua; riciclo totale dei fertilizzanti; 0 pesticidi; km zero, cioè possibilità di produrre all’interno delle città. Renderanno possibile anche la robotizzazione totale delle operazioni colturali.
La parola d’ordine della produzione agricola del futuro non potrà essere infatti che “close the loop”: chiudere il cerchio di tutte le risorse impiegate nella produzione di cibo.
Al momento, tuttavia, il conto energetico dell’illuminazione 100% artificiale è ancora troppo salato, ma si spera che in futuro si potrà trovare una soluzione anche per questo problema.
Alcuni hanno cominciato a ipotizzare anche “mini Vertical Farms” per permettere ad ognuno di prodursi ortaggi, soprattutto da foglia, anche nella cucina o nel salotto di casa. Il futuro del fuori suolo, pertanto, potrebbe essere a breve alla portata di tutti.