E’ diffusa tra molti serricoltori, ma anche tra parecchi tecnici, l’erronea convinzione che ci possa essere un limite alla disponibilità di luce da parte delle colture, cioè che la radiazione solare, oltre certi livelli, possa essere negativa per le prestazioni delle piante agrarie.
Oggi sappiamo invece, da numerose ricerche sul campo, che la luce non è mai troppa, purché si riesca a mantenere la temperatura (e l’umidità) ambientale all’interno dei limiti ottimali per la realizzazione del processo fotosintetico.
Un aspetto fondamentale per migliorare in futuro le prestazioni della serricoltura a livello mondiale, sarà quindi quello di massimizzare l’intercettazione della radiazione solare da parte delle colture, perché significa maggiore fotosintesi, quindi maggiore resa e qualità.
Il primo passo per ottenere questo risultato in serra è ovviamente la scelta del materiale di copertura. Oggi abbiamo a disposizione teli plastici di copertura con trasmissione luminosa fino al 92-93%, circa quella di un vetro standard.
Anche la struttura portante ombreggia, quindi quello che conta è la trasmissione totale della serra. Una serra in vetro standard arriva così ca. a 70%, più o meno quanto una serra ricoperta con doppio film plastico, che ha sì ca. 10-12% di trasmissività in meno di un vetro singolo, ma anche una struttura portante meno ingombrante. Il doppio film permette però un risparmio sul riscaldamento del 25-35%, fino al 50% in climi molto freddi.
Molti, troppi, dimenticano purtroppo l’effetto polvere”, la quale si deposita con continuità sulle serre e può bloccare in poche settimane dal 10-12% fino al 20-25% della radiazione.
E poi in inverno c’è anche il problema della condensa, che non solo favorisce le malattie crittogamiche, ma toglie anche dal 9 al 13% di luce.
Una delle più famose regole pratiche del serricoltore recita: 1% in più di radiazione equivale a 1% in più di produzione! La sua veridicità è stata dimostrata anche sperimentalmente.
E non dimentichiamo la capacità di diffondere la luce della copertura, a parità di trasmissività: è ormai ampiamente dimostrato che materiali a luce diffusa aumentano le rese fino al 10-15% in Nord Europa e fino al 40-60% in clima mediterraneo.
Ci sarebbe un materiale plastico di copertura, già esistente, che potrebbe risolvere brillantemente tutte queste esigenze, se non fosse, purtroppo, per il costo assai elevato: l’Etfe. Ha alta trasmissività, addirittura superiore al vetro, non solo nel Par, ma anche nell’Uv, assai importante per la qualità delle produzioni. Può essere montato anche come doppio film gonfiato, quindi far risparmiare il 35-40% di energia termica. È “anti-dust”, cioè polveri e smog difficilmente si attaccano. Può subire anche trattamenti diffusivi e “anti-condensa” permanenti. Mantiene le proprietà ottiche e meccaniche per molti anni (15-20), quindi in serre tecnologiche potrebbe sostituire egregiamente il vetro e ripagare facilmente il maggior investimento, se solo si facessero i calcoli nel modo opportuno.
Scegliere con cognizione di causa
Scegliere bene il materiale di copertura è sicuramente uno dei primi elementi di successo per una coltura in serra.
La fotosintesi è il principale fattore di produzione, quindi è fondamentale sia la trasmissività totale della serra (materiale di copertura + strutture di sostegno), sia la qualità della radiazione, ovvero lo spettro della luce solare che raggiunge la chioma, la quale influenza sì la fotosintesi, ma anche la reazione foto-morfogenetica delle piante (lunghezza degli internodi, colori di fiori e foglie, compattezza, etc.).
Il telo di copertura determina fortemente anche il micro-clima, cioè la possibilità di riscaldare o raffreddare. Molti fattori la determinano: la diffusività o meno dei raggi solari in tutte le direzioni; la condensazione o meno del vapore e la dimensione delle gocce; l’affinità o meno allo sporco che si deposita sia all’esterno (polveri, smog), sia all’interno (trattamenti).
L’Italia è leader europeo nel settore delle plastiche agricole (22% del totale), quindi può giocare un ruolo fondamentale nello sfornare materiali sempre più innovativi e specializzati.
Alcuni li hanno definiti anche “materiali intelligenti”: possono filtrare la radiazione solare in modo selettivo, ridurre l’input energetico, coadiuvare il controllo di erbe infestanti e patogeni, facilitare il riciclo integrale alla fine del processo produttivo, essere cioè più “eco-compatibili”.
Diffusività della luce
Negli ultimi 5-7 anni hanno ricevuto notevole impulso le ricerche sull’uso di materiali di copertura a luce diffusa. Non sono una novità nella copertura delle serre, ma solo da poco si è riusciti a determinarne i reali vantaggi per le colture e i parametri per ottimizzarne l’uso.
Diffusività e trasmissività alla radiazione fotosinteticamente attiva (Par), cioè a quella compresa tra ca. 400 e 750 nm di lunghezza d’onda, non sono per niente in contrasto, solo che non è facile da apprezzare con l’occhio umano, che tende a considerare i materiali diffusivi meno “trasparenti” di quelli a luce diretta.
È comunque naturale che sia così, visto che la nostra retina ha il massimo di efficienza a ca. 550 nm, ovvero nel giallo, radiazione verso la quale le piante sono quasi “cieche”, in quanto la clorofilla ha 2 picchi di assorbimento nel visibile a ca. 380-420 nm (blu-violetto) e a 680-720 nm (rosso vicino). Il blu ha effetti soprattutto foto-morfogenetici, cioè influenza lo sviluppo di gemme e organi delle piante, mentre i “fotoni foto-sintetici” sono soprattutto quelli nel rosso.
Le ricerche degli ultimi anni hanno stabilito in modo inequivocabile che si possono ottenere rese ed effetti qualitativi superiori sotto coperture a luce diffusa, rispetto a quelle a luce diretta, nell’ordine del 9-10% nel Nord Europa, mentre sembra che più si scende verso Sud, più possano aumentare i benefici della luce diffusa.
Le prime ricerche sistematiche ci dicono che si possa arrivare a miglioramenti dal 15-20%, addirittura fino al 50-60%, che possono essere ottenuti con investimenti davvero minimi, quindi è opportuno che tecnici e serricoltori possano farsi un’idea chiara al proposito.
Come può essere spiegato questo migliore effetto della luce diffusa sulle colture? La resa fotosintetica delle foglie della chioma di una pianta è molto diversa a seconda della loro collocazione lungo lo stelo. Le foglie apicali (foglie “di luce”), esposte al sole, raggiungono rapidamente il livello di saturazione fotosintetica, nelle ore centrali della giornata quindi, anche se si aumenta la radiazione, la produzione di sostanza secca non aumenta.
Le foglie negli strati inferiori della chioma (foglie “d’ombra”), invece, non raggiungono quasi mai la saturazione, poiché vengono ombreggiate da quelle apicali, quindi la resa fotosintetica media della chioma è inferiore al potenziale massimo.
I materiali di copertura a luce diffusa hanno la proprietà di deviare i raggi solari in tutte le direzioni, quindi aumentano sia la resa fotosintetica delle foglie d’ombra, sia la resa media della chioma.
Tutto ciò è possibile, tuttavia, se la diffusività non riduce la trasmissività totale della copertura. La percentuale di diffusività viene misurata, con termine inglese, in % di “haze”, che potrebbe essere tradotto “torbidità”. Le prestazioni migliori si sono osservate fino ad oggi su materiali con trasmissività totale di ca. l’85-89% e percentuale di haze tra il 50 e il 70%.
In clima mediterraneo i film diffusivi possono avere un altro importante vantaggio: possono ritardare, o addirittura rendere superfluo, l’imbiancamento del tetto o l’uso di reti ombreggianti in estate, poiché si riduce il rischio di scottature delle foglie apicali, senza per questo ridurre il Par, che sappiamo non essere mai eccessivo per le piante, purché si possa ricondurre la temperatura ambientale nell’intervallo ottimale per la fotosintesi, ovvero ca. 15-25°C.
Bilancio energetico
Non dobbiamo dimenticare però anche i costi energetici per il riscaldamento delle serre “tecnologiche”, che oggi rappresentano tra il 25 e il 40% del costo di produzione, un costo sempre più insostenibile in un mercato globalizzato.
Per riuscirci occorre sommare varie tecnologie e ovviamente anche nuovi materiali di copertura possono svolgere un ruolo fondamentale in questa strategia: prodotti a luce diffusa + trattamento anti-riflesso, oppure il “doppio film in Pe gonfiato”.
L’obiettivo ultimo futuro di ricercatori e produttori è sempre uno solo: materiali di copertura con il massimo di trasmissività alla radiazione fotosinteticamente attiva (il cosiddetto Par, compreso più o meno tra 400 e 750 nm) e con il massimo di risparmio energetico.
Il principale criterio di scelta dei teli plastici di copertura, fino a oggi, ha riguardato soprattutto il loro effetto termico, sia tradizionale che speciale, ovvero la loro capacità sia di aumentare la temperatura a disposizione delle colture (“effetto serra”), quando questa è troppo bassa, sia di contenere il surriscaldamento dell’aria, quando può pregiudicare la crescita e la riproduzione delle colture.
Le plastiche a effetto termico “tradizionale” hanno la capacità soprattutto di ridurre le emissioni notturne delle radiazioni infrarosse (Ir) lunghe (effetto barriera alla radiazione termica).
Ciò può essere ottenuto in vari modi: con polimeri polari, quali Eva (etilen vinil acetato), Eba (etilene butilacrilato) o Pvc (poli vinil cloruro); con l’aggiunta di cariche minerali, quali i silicati; con polimeri fluorurati, quali l’Efte (tetrafluoroetilene); oppure con la poliammide (Pa).
Negli ultimi anni, soprattutto per l’impiego nei climi mediterranei, si sono diffusi anche i film a effetto termico “speciale”, che possono ridurre il surriscaldamento della serra in estate: tramite coloranti (rosso, blu, verde, etc.), oppure pigmenti d’interferenza dispersi nel polimero plastico (miche), micro bolle di gas, microsfere cave di vetro, etc.
Tutto giusto, ma non va mai dimenticata, come prioritaria, l’efficienza fotosintetica.
Coperture autopulenti
In ambiente mediterraneo, dove prevalgono i “cicli invernali”, è di prioritaria importanza la massima trasmissività della radiazione solare nei mesi più bui (dicembre-febbraio). Differenze dell’ordine dell’1% di trasmissività tra un materiale di copertura e un altro sono quindi importanti, ma ci si dimentica spesso che un solo mese senza lavare il tetto della serra fa perdere dal 15 al 25% di produzione.
Attive sono anche le ricerche su materiali plastici “auto-pulenti”, ovvero che sfruttano il cosiddetto “effetto loto”, detto anche “super-hydrophobia”, in quanto questa pianta possiede foglie con una micro-struttura che le rende perfettamente idrofobiche.
Trattando con nano-particelle le plastiche di copertura si può imitare questo effetto, che consente alle piogge di rimuovere in modo semplice e naturale la polvere che si accumula continuamente sulle serre, soprattutto in ambienti mediterranei molto secchi e polverosi.
Altre ricerche riguardano materiali plastici con sempre maggiore trasmissività alla radiazione visibile, sia diretta che diffusa, grazie a diversi accorgimenti: riduzione della riflessione della luce incidente; trattamenti anti-polvere e anti-condensa, che pure riduce la trasmissività; additivi per conservare il più possibile inalterate nel tempo le proprietà ottiche.
Come si può ben vedere, quindi, la scelta del giusto film di copertura è una scelta veramente strategica per il successo di un serricoltore. Nei tempi sempre più difficili e competitivi che viviamo oggi, può fare la differenza tra andare falliti e poter ricavare redditi più che dignitosi dalle nostre serre.