Scegliere bene il materiale di copertura è sicuramente uno dei primi elementi di successo per una coltura in serra. La fotosintesi, come è noto, è il principale fattore di produzione, quindi è fondamentale sia la trasmissività totale della serra (materiale di copertura + strutture di sostegno), sia la qualità della radiazione, ovvero lo spettro della luce solare che raggiunge la chioma, la quale influenza sì la fotosintesi, ma anche la reazione foto-morfogenetica delle piante (lunghezza degli internodi, colori di fiori e foglie, compattezza). Il telo di copertura determina fortemente anche il micro-clima, cioè la possibilità di riscaldare o raffreddare. Molti fattori la determinano: la diffusività o meno dei raggi solari in tutte le direzioni; la condensazione o meno del vapore e la dimensione delle gocce; l’affinità o meno allo sporco che si deposita sia all’esterno (polveri, smog), sia all’interno (trattamenti). L’Italia è leader europeo nel settore delle plastiche agricole (22% del totale), quindi può giocare un ruolo fondamentale nello sfornare materiali sempre più innovativi e specializzati. Alcuni li hanno definiti anche “materiali intelligenti”: possono filtrare la radiazione solare in modo selettivo, ridurre l’input energetico, coadiuvare il controllo di erbe infestanti e patogeni, facilitare il riciclo integrale alla fine del processo produttivo, essere cioè più eco-compatibili.
Trasmissività e bilanciamento energetico
In Olanda, paese leader nelle serre hi-tech, la chiamano gold thumb rule (“regola d’oro del pollice”). È una regola pratica, ma è stata confermata anche da molte ricerche scientifiche: 1% in più di radiazione in serra equivale a un 1% in più di produzione (in realtà si sono osservati incrementi medi tra 0,8 e 1,1%). Sulla base di questa regola si sono scelti fino a oggi materiali con la massima trasmissività alla luce solare, ovvero trasparenti. Non dobbiamo dimenticare però anche i costi energetici per il riscaldamento delle serre tecnologiche, che oggi rappresentano tra il 25 e il 40% del costo di produzione. Un costo sempre più insostenibile in un mercato globalizzato, infatti da anni la ricerca olandese lavora, e con successo, per ridurre fortemente l’input delle serre anzi, l’obiettivo finale è quello di trasformare per il 2025 la serra da consumatrice a produttrice di energia (www.kasalsenergiebron.nl). Per riuscirci occorre sommare varie tecnologie: cogenerazione (produzione combinata di energia elettrica e calore), maggiore uso di bio-carburanti, sfruttamento dell’energia geotermica, accumulo in falde profonde del calore solare catturato dalla serra in estate, impiego di schermi energetici singoli o doppi. Ovviamente anche nuovi materi di copertura hanno un ruolo fondamentale in questa strategia: vetri a luce diffusa + trattamento anti-riflesso, oppure il vetro camera o, nel caso delle coperture plastiche, il doppio film in PE gonfiato. Possono ridurre le dispersioni termiche fino al 50%, ma il primo è ancora troppo costoso, mentre il secondo fa perdere un po’ di trasmissività. In ogni caso l’obiettivo ultimo futuro di ricercatori e produttori è sempre uno solo: materiali di copertura con il massimo di trasmissività alla radiazione fotosinteticamente attiva (il cosiddetto PAR, compreso più o meno tra 400 e 750 nm) e con il massimo di risparmio energetico. Il principale criterio di scelta dei teli plastici di copertura, fino a oggi, ha riguardato soprattutto il loro effetto termico, sia tradizionale che speciale, ovvero la loro capacità sia di aumentare la temperatura a disposizione delle colture (effetto serra), quando questa è troppo bassa, sia di contenere il surriscaldamento dell’aria, quando può pregiudicare la crescita e la riproduzione delle colture. Le plastiche a effetto termico tradizionale hanno la capacità soprattutto di ridurre le emissioni notturne delle radiazioni infrarosse (IR) lunghe (effetto barriera alla radiazione termica). Ciò può essere ottenuto in vari modi: con polimeri polari, quali EVA (etilen vinil acetato), EBA (etilene butilacrilato) o PVC (poli vinil cloruro); con l’aggiunta di cariche minerali, quali i silicati; con polimeri fluorurati, quali l’EFTE (tetrafluoroetilene); oppure con la poliammide (PA). Negli ultimi anni, soprattutto per l’impiego nei climi mediterranei, si sono diffusi anche i film a effetto termico “speciale”, che possono ridurre il surriscaldamento della serra in estate: tramite coloranti (rosso, blu, verde, ecc.), oppure pigmenti d’interferenza dispersi nel polimero plastico (miche), micro bolle di gas, microsfere cave di vetro, ecc. Tutto giusto, ma non va mai dimenticata, come prioritaria, l’efficienza fotosintetica.
Diffusività e rese
Altro filone molto promettente della ricerca riguarda la proprietà dei materiali di copertura di diffondere la radiazione solare in tutte le direzioni all’interno della serra. I risultati della ricerca olandese sui vetri diffusivi negli ultimi 7-8 anni sono apparsi veramente solidi ai coltivatori olandesi. Recentemente, in gran parte delle nuove serre in costruzione, ci si è orientati verso coperture con diffusività tra il 40 e il 60%, per colture a sviluppo verticale e ciclo annuale (pomodoro, ad es.). Per quelle più delicate e a ciclo breve (attività vivaistica, ad es.) si può arrivare fino al 70% di haze (= diffusività). In Nord Europa è già stato confermato più volte che la luce diffusa, a parità di tutte le altre condizioni colturali, può regalare al serricoltore fino al 10% in più di produzione. Per un produttore olandese di pomodoro a grappolo grosso (120-130 g/frutto), ad esempio, ciò equivale a ben 5-7 kg/m2 in più di resa. A cosa è dovuto l’effetto positivo della diffusività? Le teste delle piante risultano meno stressate (minore saturazione fotosintetica) e vi è maggiore radiazione a disposizione degli strati intermedi e inferiori della chioma, col risultato che aumenta la fotosintesi media della pianta e i frutti accumulano più sostanza secca. In clima mediterraneo, quale è quello italiano, o del Sud della Spagna, ad esempio, dove il rapporto tra luce solare diretta e diffusa è addirittura opposto al Nord Europa, (da noi prevale la luce diretta), i benefici della diffusività sono ancora più eclatanti. Ad Almeria, ad esempio, in una coltura primaverile di cetriolo, con plastiche al 45% di luce diffusa, si sono prodotti ca. 13 kg/m2, contro 8 kg/m2 in luce diretta, ovvero un incremento di produzione di ben il 60%. Prove simili in corso stanno confermando queste enormi potenzialità dei materiali diffusivi.
Fotoselettività e difesa integrata
Avviene già, ma nel prossimo futuro si incrementerà ancor di più anche l’uso di film plastici fotoselettivi, cioè colorati, i quali hanno la proprietà di selezionare le lunghezze d’onda della luce visibile, che influenzano la fotosintesi e lo sviluppo delle piante (comprese tra 400 e 750 nm). Possiamo accorciare gli internodi in piante ornamentali, rendendole più compatte o, viceversa, promuovere una maggiore distensione dei tessuti, quindi ottenere lamine fogliari più espanse e piante più “vestite”. Possiamo ridurre o addirittura bloccare la produzione di germogli laterali (femminelle), con conseguente riduzione del fabbisogno di manodopera per le onerose operazioni di diradamento (“scacchiatura”), o modificare i colori dei fiori ornamentali e rendere più scure, consistenti e croccanti le foglie, come ad esempio nelle baby leaf per la IV gamma. Teli colorati possono rappresentare anche un mezzo di controllo delle popolazioni di alcuni parassiti: riduzione della sporulazione di alcune crittogame, soprattutto della Botrite; alterazione della visione, orientamento, attività trofica e tasso di riproduzione di insetti vettori di virus, soprattutto della mosca bianca e dei tripidi. In Israele, addirittura, tramite l’uso combinato di reti anti-insetto e plastiche di pacciamatura che bloccano i raggi UV, con cui gli insetti si orientano (materiali “UV-Block”), si è arrivati a ridurre del 90% l’uso di pesticidi chimici nel controllo delle virosi trasmesse da Bemisia.
Coperture autopulenti e anti condensa
In ambiente mediterraneo, dove prevalgono i cicli invernali, è di prioritaria importanza la massima trasmissività della radiazione solare nei mesi più bui (dicembre-febbraio). Differenze dell’ordine dell’1% di trasmissività tra un materiale di copertura e un altro sono quindi importanti, ma ci si dimentica spesso che un solo mese senza lavare il tetto della serra fa perdere dal 15 al 25% di produzione. Alcune ricerche in corso, pertanto, sono orientate su materiali plastici “auto-pulenti”, ovvero che sfruttano il cosiddetto “effetto loto”, detto anche super-hydrophobia (questa pianta possiede foglie con una micro-struttura che le rende perfettamente idrofobiche). Trattando con nano-particelle le plastiche di copertura si può imitare questo effetto, che consente alle piogge di rimuovere in modo semplice e naturale la polvere che si accumula continuamente sulle serre, soprattutto in ambienti mediterranei molto secchi e polverosi. Nella stessa direzione vanno studi e prove sulla riduzione della riflessione della luce incidente, sui trattamenti anti-polvere e anti-condensa, che pure riduce la trasmissività, su additivi per conservare il più possibile inalterate nel tempo le proprietà ottiche. Ci sarebbe un materiale di copertura, già esistente, che potrebbe risolvere brillantemente tutte queste esigenze, se non fosse, purtroppo, per il costo assai elevato: l’Etfe. Ha alta trasmissività, addirittura superiore al vetro, non solo nel PAR, ma anche nell’UV, assai importante per la qualità delle produzioni. Può esse montato anche come doppio film gonfiato, quindi far risparmiare il 35-40% di energia termica. È “anti-dust”, cioè polveri e smog difficilmente si attaccano. Può subire anche trattamenti “anti-condensa” permanenti. Mantiene le proprietà ottiche e meccaniche per molti anni (15-20), quindi in serre tecnologiche potrebbe sostituire egregiamente il vetro e ripagare facilmente il maggior investimento, se solo si facessero i conti nel modo opportuno.
Biodegradabilità e riciclo
Infine non vanno dimenticati gli aspetti ambientali, ovvero la sostenibilità dei materiali plastici, cioè il loro riciclo dopo l’uso come materiali di copertura per serre, ma soprattutto per la pacciamatura del terreno, oppure l’uso di nuove plastiche biodegradabili, ottenute da sottoprodotti agro-industriali e non da prodotti a uso alimentare, quindi con una forte valenza ambientale. Va in questa direzione, ad esempio, il progetto Start (Stretching & turbolent air ribbon technology), per mettere a punto una nuova tecnologia per la pulizia a secco in campo dei materiali plastici, per facilitarne il riciclo industriale. Il progetto si è confrontato con un problema tipico del riciclo di materiali plastici di fonte agricola, ovvero la presenza di sostanze estranee quali terra e materiale organico vario (radici, alghe, muschi, licheni, etc.), talvolta in percentuali superiori al 60%, che costituiscono un forte freno allo sviluppo di processi di riciclo su scala di massa. È stata sviluppata un’unità meccanica mobile, facilmente accoppiabile ai veicoli già predisposti per la raccolta di film agricoli, che funziona senz’acqua, bensì con una tecnologia che impiega getti d’aria compressa e meccanismi di taglio, stiramento e forti vibrazioni, per facilitare il distacco dei materiali estranei. Il lavaggio finale avviene successivamente presso le fabbriche di riciclo e rigenerazione, ma il prototipo Start ha dimostrato di poter abbattere già in campo oltre il 50% dei materiali estranei. La biodegradabilità, o la totale riciclabilità, delle plastiche agricole, ottenute partendo da sottoprodotti agroindustriali, sono da tempo e saranno sempre più un ulteriore fondamentale campo di lavoro per tutto il settore, se si accrescerà la volontà di tutti i soggetti coinvolti, dai coltivatori, alle associazioni di categoria, alla gdo e all’industria della plastica, di inserirla come colonna portante di una filiera agricola di qualità e rispetto dell’ambiente.
Allegati
- Scarica il file: L’azione sul micro clima