Produttività ridotta se il ferro è carente

Produttività ridotta se il ferro è carente
La clorosi ferrica riduce fortemente la produttività della fragola.
È il microelemento assorbito in maggiore quantità dalle colture ed esplica un ruolo chiave in numerosi processi fisiologici.

La carenza assoluta di ferro nei suoli dei nostri comprensori è assai rara; nelle normali condizioni colturali la indisponibilità di questo microminerale per le piante deriva dalla sua scarsissima solubilità con pH subalcalino ed alcalino e dagli effetti negativi dell’elevato tenore di calcare attivo che, in condizioni di elevata disponibilità idrica nel suolo, libera ioni bicarbonato che, in particolare con temperature basse del suolo, inibiscono i sistemi di assorbimento specifici del ferro da parte delle radici; altro fattore predisponente è l’elevata dotazione di fosforo che va a formare fosfati di ferro, di scarsa disponibilità per le colture.
Altra causa della carenza relativa di ferro può derivare da squilibri nei rapporti con altri elementi nutritivi: in particolare si riscontra una interazione negativa od antagonismo con elevati livelli di calcio, magnesio, zinco e rame. Da rimarcare inoltre che il rapporto ferro/manganese nelle parti verdi della pianta idealmente dovrebbe aggirarsi attorno al 2,5-2: valori superiori inducono clorosi da carenza di manganese, mentre se il rapporto si discosta da questi valori verso il basso si evidenzia una carenza di ferro.

La clorosi ferrica
La manifestazione più comune della carenza del microminerale è la clorosi ferrica che tipicamente compare nel corso della primavera, in corrispondenza di elevati livelli di umidità nel suolo e basse temperature de terreno e dell’aria: essa si evidenzia a partire dalle foglie giovani e dai germogli in accrescimento, prima con una colorazione verde più chiara, poi gialla, infine nei casi più gravi e persistenti, tendente al bianco con i bordi della lamina fogliare disseccati. Le nervature mantengono una colorazione più intensa rispetto alla rimanente lamina fogliare: verde scura quando la foglia è già diventata verde chiara, verde quando la lamina è gialla, gialla quando la lamina ha già assunto colorazione biancastra.
Nelle colture protette l’assorbimento e la funzionalità del ferro sono spesso depresse da alti valori del pH e/o dalla alta concentrazione di fosforo, tanto più se nel suolo è elevato il tenore idrico. Cavolfiori, cavolini di Bruxelles, cavoli a testa sono molto sensibili a queste condizioni, che le porta a sviluppare le clorosi tipiche della carenza di ferro.
La clorosi ferrica può essere localizzata anche solo su alcune parti di pianta, evidenziando problemi di traslocazione del ferro, molto spesso correlati ad ostruzioni dei vasi xilematici causati ad esempio da danni da congelamento oppure da patologie fungine.
In termini generali, con le logiche differenze varietali, si segnalano come molto sensibili alla clorosi ferrica il fagiolo ed il pomodoro: assai raramente presentano sintomi di carenza di ferro la patata e la barbabietola.
I sintomi di carenza di ferro ravvisabili nelle principali colture protette sono i seguenti:
– su fragola le foglie più giovani diventano giallastre con le nervature che permangono verdi; il margine dentato delle foglie più vecchie imbrunisce e muore;
– su fagiolino la lamina fogliare impallidisce con le nervature che si mantengono più scure; la progressione della clorosi conduce ad una lamina fogliare gialla-gialla chiara; al livello finale della carenza di ferro la foglia diventa completamente bianca;
– su patata si manifestano tipiche clorosi internervali che però interessano solo la zona centrale della lamina fogliare; le foglie possono assumere una conformazione a coppa; i tessuti clorotici possono virare al bianco.
Manifestazioni conseguenti ad eccessiva dotazione assoluta di ferro non sono riportate nelle nostre condizioni colturali: il fenomeno che più frequentemente si evidenzia nelle nostre coltivazioni arboree può essere una carenza di manganese dovuta ad un rapporto squilibrato nelle parti verdi della pianta indotto da pesanti concimazioni con chelati di ferro fogliari e/o radicali.

In natura
Il simbolo chimico del ferro, dal latino ferrum, è Fe: dal punto di vista chimico è un metallo. Il suo numero atomico è 26, mentre il peso atomico è 55,85.
Il ferro è in assoluto il metallo più abbondante all’interno della Terra (costituisce quasi il 35% della massa). È un elemento chimico di cui è molto ricca anche la crosta terrestre, di cui costituisce quasi il 5% in peso. Allo stato puro sarebbe di colore bianco-argenteo, ma il ferro in natura è sempre riscontrabile solo in composti di varia tipologia: ossidi, idrossidi, carbonati, solfuri, ecc.
I minerali che contengono ferro sono svariati: fra i più diffusi ricordiamo la pirite (formula FeS2) che contiene ferro e zolfo e si presenta spesso con bellissimi cristalli cubici di colore giallo oro, mentre la magnetite, di un nero lucido, è una combinazione di ferro e ossigeno (formula Fe3O4).
Il ferro viene assorbito dalla piante come Fe2+ oppure come Fe3+, di cui la prima forma è quella preferita. Il ferro deve essere assorbito dalle piante in modo continuativo durante lo sviluppo delle piante, in quanto circola solo nei canali xilematici e quindi non può essere ritraslocato dagli organi vecchi verso i nuovi.
I composti ferrici presenti nel suolo sono molto poco solubili, per cui nella soluzione circolante la concentrazione di ferro è molto bassa, fra 10-6 a 10-20 mg/l, in funzione soprattutto del pH del suolo: la presenza di sostanza organica è in grado di aumentare la concentrazione di ferro nella soluzione.
Il ferro è al centro della struttura di maggiore importanza per i Vertebrati, e precisamente la emoglobina, (fig. 1) proteina che svolge la funzione di trasportare l’ossigeno all’interno degli organismi animali grazie alla sua presenza all’interno dei globuli rossi del sangue.

Nelle piante
Nelle piante, il ferro riveste una grande importanza e per questo motivo hanno acquisito sistemi specifici per il suo assorbimento, mediante l’emissione da parte delle radici di protoni, di sostanze riducenti e chelanti organici (fitosiderofori): quest’ultima modalità è tipica delle monocotiledoni e le rende molto efficienti nell’assorbimento del ferro, scongiurando carenze di questo microelemento nella maggior parte delle graminacee.
L’importanza del ferro per il metabolismo delle piante è dipendente dalla sua capacità di cambiare valenza, da ferro bivalente a ferro trivalente, e di formare complessi chelati. Il ferro è costituente della parte funzionale di vari enzimi, tra i quali catalasi e perossidasi: anche diversi citocromi contengono ferro. Le funzioni del ferro nei vegetali si manifestano in tutti i più importanti processi metabolici ossido-riduttivi (fotosintesi, respirazione). Il ferro è direttamente collegato alla produzione di energia con la respirazione ed è molto rappresentato nei mitocondri; i cloroplasti contengono fino all’80% del ferro presente nelle piante, dove si ricorda soprattutto la ferredoxina, ferroproteina che svolge un ruolo fondamentale nel primo passaggio della fotosintesi e cioè la conversione dell’energia luminosa in energia chimica, nonché nella azoto fissazione che avviene nei noduli radicali delle leguminose.
Il contenuto medio ferrico in una pianta in genere varia tra 50 e 200 ppm: colture orticole molto ricche in ferro sono spinaci, cavoli, lattuga e prezzemolo.
Il tenore di ferro totale nei suoli è molto variabile, e può essere compreso fra lo 0,7 ed il 4,2%, superando quindi in certi casi anche il tenore in potassio: il peso del ferro totale presente nel volume di terreno esplorato dalle radici può oscillare fra le 25 e le 80 tonnellate in un ettaro, in grado quindi di soddisfare largamente le esigenze delle piante, che nella maggior parte delle specie non raggiunge il chilogrammo per ettaro per anno, fino ad un massimo di 1,5-2 kg/ha per alcune specie avide di ferro come le arachidi.
A fronte di queste grandi quantità di ferro nel suolo si deve registrare che solo una minima frazione si rende assimilabile per le piante, in un rapporto che può facilmente essere di 1 una parte su 10000; ne consegue che nelle nostre analisi del terreno, quando controlliamo il valore di ferro assimilabile molto spesso oscilla fra i 3 ed i 35 ppm, cioè 3-35 milligrammi di ferro assimilabile per chilogrammo di terreno.
Il ferro è il microelemento asportato dalle piante in maggior misura e, a seconda delle colture vengono assorbiti dai 300 ai 2000 grammi per ettaro.
Il tenore di ferro nella lamina fogliare può andare dai 10 ppm, valore molto basso riscontrabile nei cereali frumento e mais nelle prime fasi, fino a 300 ppm, valore riscontrabile su molte colture arboree o anche su pomodoro.

Apporti
Le fonti di ferro cui si fa più frequentemente ricorso in agricoltura sono indubbiamente i fertilizzanti chimici di varia composizione. Per un apporto generico di ferro si può impiegare il solfato di ferro, con 100 kg del quale si distribuiscono, a seconda dei prodotti, da 18 a 20 chilogrammi di ferro. Siccome la carenza di ferro è quasi sempre causata dal blocco dell’elemento da parte del suolo e non da vera mancanza, è preferibile attribuire il ferro in forma “protetta” che limiti la insolubilizzazione da parte del suolo e nel contempo renda disponibile il ferro per le radici delle piante. La soluzione è quella dei chelati di ferro, che esaltano notevolmente la disponibilità di ferro per le colture, con range ottimali di pH diversi da chelato a chelato: i chelati DTPA, EDTA e HEEDTA vengono impiegati anche per la concimazione fogliare.
Le fuoriuscite ferriche dal suolo derivano soprattutto dall’assorbimento da parte delle colture e quindi dall’asportazione con il raccolto che comunque, come visto in precedenza, sono estremamente contenute.
La lisciviazione del ferro si può verificare solo nei terreni molto acidi (pH inferiore a 5): in tali condizioni si registrano in realtà anche altri problemi nutrizionali, ben più gravi della mera carenza di ferro.

Concimazione
Sono numerose le colture agrarie la cui resa produttiva è condizionata dalla prevenzione o risoluzione delle carenze ferriche: è quindi molto importante conoscere la problematica ed affrontarla in modo tempestivo ed efficace.
La prevenzione passa anche dal gestire nel modo più adeguato il terreno e la colture per evitare o limitare le condizioni predisponenti la clorosi ferrica:
– mantenere un buon livello di sostanza organica nel suolo, che favorisce l’assorbimento del ferro da parte delle piante;
– curare lo sgrondo del terreno, in quanto i ristagni prolungati nuocciono all’assorbimento radicale del ferro;
– concimare in modo equilibrato, in quanto gli eccessi di altri elementi nutritivi possono provocare una carenza indotta di ferro.
Per quanto riguarda gli interventi fertilizzanti, abbiamo più volte evidenziato che nei nostri comprensori agricoli una carenza assoluta di ferro è improbabile, mentre si verificano delle carenze relative dovute alla scarsa assimilabilità del ferro del suolo, dovuta a fattori permanenti (pH, calcare attivo) e temporanei (ristagni idrici, bassa temperatura del suolo).
È logico che in queste condizioni concimare il terreno con ferro sotto forma di sale, ad esempio solfato, fa sì che questo venga rapidamente bloccato dal suolo come la grande dotazione naturale in esso presente: si deve ovviare a ciò applicando il ferro in forma “protetta”, sotto forma di ferro chelato, sia per via radicale che per via fogliare.
Fogliare
La concimazione fogliare (se attuata con prodotti di alta qualità) presenta il vantaggio di una azione estremamente rapida e di andare a colpire direttamente gli organi che devono essere raggiunti dal ferro e cioè le foglie ed i germogli: lo svantaggio è che la sua azione non è persistente e gli organi che si sviluppano dopo il trattamento fogliare non godono dei vantaggi della nutrizione ferrica effettuata, per cui la concimazione fogliare, persistendo le condizioni sfavorevoli all’assorbimento del ferro da suolo, deve essere ripetuta a turno di 7-10 giorni.
I prodotti fogliari ai quali viene in genere riconosciuta la maggiore prontezza d’azione ed efficienza nelle diverse condizioni sono quelli chelati con EDTA, DTPA e HEEDTA. Le concimazioni fogliari si effettuano distribuendo indicativamente per ogni intervento 70-150 grammi/ettaro di ferro.
Gli agenti chelanti impiegati per la concimazione ferrica radicale sono EDDHA, EDDHSA e, di più recente introduzione, HBED. Presentano una stabilità fra pH 4 e 10, adeguata per la stragrande maggioranza dei suoli italiani.
L’applicazione di chelati di ferro radicali presenta il vantaggio di creare un certo “serbatoio” di ferro a cui la pianta può attingere e che può andare a favore delle foglie e dei germogli sviluppatisi dopo la concimazione: la nota negativa è che comunque, se il terreno presenta un alto contenuto di acqua ed una temperatura bassa, le radici faticano ad assorbire il ferro anche se somministrato sotto forma chelata. Il ferro chelato viene applicato al suolo in genere in fertirrigazione o, ove non presente, con appositi localizzatori pianta per pianta del chelato sciolto in acqua. Le quantità di ferro distribuite per via radicale vanno in genere dai 300 ai 1000 grammi per ettaro per intervento, per un totale nell’arco della stagione di 1,8-2,5 kg/ha di ferro. n

Produttività ridotta se il ferro è carente - Ultima modifica: 2018-01-04T10:57:47+01:00 da Lucia Berti

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome