Nella pacciamatura del terreno destinato alla coltivazione di ortive è sempre più diffuso l’utilizzo di film (o teli) costituiti da polimeri biodegradabili, a base di amido di mais, come ad esempio Mater-Bi e polilattico, oppure di altri polimeri, quali copoliestere, poliesterammide e altri.
Un numero crescente di aziende orticole, biologiche e convenzionali, ricorre a essi perché, spiega Eugenio Cozzolino, ricercatore del Crea-Unità di ricerca per le colture alternative al tabacco (Crea-Cat) di Scafati (Sa), offrono un’alternativa efficiente, sotto il profilo agronomico e ambientale, rispetto ai teli tradizionali e fanno risparmiare tempo e risorse.
«Le aziende orticole fanno crescente ricorso alla pacciamatura del terreno, perché questa tecnica garantisce numerosi vantaggi agronomici: controlla quasi tutte le erbe infestanti; elimina il bisogno di manodopera per il controllo delle infestanti mediante sarchiature, zappature e scerbature; evita il compattamento del terreno, favorendo un migliore sviluppo radicale; impedisce la perdita di acqua attraverso l’evaporazione dal suolo; trattiene l’umidità che risale dalla profondità del terreno mettendola a disposizione delle piante con conseguente risparmio idrico; facilita la manipolazione delle piantine durante il trapianto; aumenta la precocità delle colture, poiché il terreno si riscalda in meno tempo e si mantiene più caldo rispetto al suolo non coperto; consente produzioni maggiori e di più alta qualità; migliora la pulizia dei frutti raccolti».
Opzioni
Nella scelta del tipo di pacciamatura le opzioni possibili sono due: l’utilizzo del film in polietilene nero (Pe) o il ricorso ai film biodegradabili.
«Il film in polietilene nero, materia plastica che deriva dal petrolio, alla fine del ciclo colturale deve essere rimosso e consegnato a un centro di smaltimento come rifiuto speciale: questa operazione è molto costosa per la rimozione del film e richiede tempo e impegno. Invece il film biodegradabile, che vanta proprietà meccaniche e caratteristiche d’uso in campo simili a quelle del film in polietilene, come dimostrano numerosi dati sperimentali e anni di utilizzo in agricoltura, non va rimosso a fine ciclo: una semplice fresatura lo sminuzzerà e aiuterà a degradarsi completamente, per azione della microflora tellurica, cioè batteri e funghi, in acqua, anidride carbonica e sostanza organica».
Positivi, ad esempio, sono i riscontri ottenuti dal gruppo di ricerca di Ortofloricoltura afferente alla Scuola di Scienze agrarie, forestali, alimentari e ambientali (Safe) dell’Università della Basilicata, composto da Vincenzo Candido, docente di Orticoltura e Floricoltura, e da Donato Castronuovo, tecnico di laboratorio, che ha testato in campo film biodegradabili per la pacciamatura e per la solarizzazione del terreno presso l’Azienda agricola sperimentale dimostrativa “Pantanello” dell’Alsia di Metaponto (Mt).
«Abbiamo effettuato – afferma Candido – sia prove di resistenza meccanica nel tempo, per valutare la durata e quindi la reale utilizzabilità temporale dei film impiegati, sia prove di caratterizzazione spettrofotometrica, per verificare quale parte della radiazione solare filtrino e quindi capire se siano in grado di schermare il terreno durante la notte, evitando la dispersione di calore. Abbiamo testato film spessi 12 e 15 micron (1 micron è un millesimo di mm o un milionesimo di metro), che, malgrado l’esile spessore, hanno manifestato caratteristiche di resistenza meccanica molto interessanti».
Durata
Dalle ricerche, realizzate alcuni anni fa, era emerso che i film biodegradabili si comportavano come i comuni film plastici per colture con ciclo di 3-4 mesi, mentre non resistevano bene oltre. «Ma negli ultimi anni – puntualizza Castronuovo – sono stati messi a punto film biodegradabili con una “vita tecnica” più lunga, cioè addizionati con particolari sostanze che consentono di stabilizzarne la composizione, in modo da poterli utilizzare anche per colture a ciclo anche cinque mesi».
Il ricorso ai film biodegradabili sta avvenendo sempre più spesso sia nell’orticoltura biologica sia in quella convenzionale.
Entrambe ne stanno imparando ad apprezzare i vantaggi, sottolinea Fabio Tittarelli, ricercatore del Crea-Centro di ricerca per lo studio delle relazioni tra pianta e suolo (Crea-Rps) di Roma e coordinatore del progetto Biosemed (Sistemi di produzione orticola biologica in serra in ambiente mediterraneo) realizzato presso l’Istituto agronomico mediterraneo (Iamb-Ciheam) di Bari.
«Per le aziende orticole italiane che operano in biologico non esiste alcun obbligo di utilizzare i film biodegradabili. Così come non esiste alcun obbligo negli altri Paesi dell’Unione europea, perché il Regolamento (Ce) n. 834/2007 del Consiglio europeo del 28 giugno 2007 relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici nulla ha disposto al riguardo. Né pare che le nuove norme sul bio, che verranno approvate dal Consiglio non prima del prossimo autunno, dicano nulla di nuovo in merito».
Aspetto ambientale
Tuttavia le aziende che li utilizzano, o volontariamente oppure nel rispetto di un disciplinare di produzione più rigoroso delle norme Ue, imposto da una catena della Grande distribuzione organizzata, si presentano sicuramente meglio sotto l’aspetto ambientale, sostiene Tittarelli. «Inoltre evitano di dover effettuare la raccolta differenziata dei film plastici di polietilene, perché la rimozione su ampie superfici e il trasporto, spesso a carico dell’agricoltore, di tali film, presso i centri di smaltimento controllato, hanno un costo notevole».
Le aziende biologiche possono utilizzare i film biodegradabili, ma non quelli fotodegradabili all’UV, chiarisce Pino Mele, divulgatore agricolo presso l’Agenzia lucana di sviluppo e di innovazione in agricoltura (Alsia) U.O. Agricoltura biologica e biodinamica.
«È un chiarimento necessario perché spesso i film fotodegradabili vengono confusi con i biodegradabili. Questi vengono degradati per azione dei microrganismi del terreno in acqua, anidride carbonica e sostanza organica, invece i fotodegradabili sono comuni film plastici che vengono depolimerizzati, cioè degradati e distrutti dalla luce solare, con il concorso del calore e dell’umidità; però la parte di telo interrato, che è più protetta, subisce effetti ridotti degli agenti atmosferici, rimanendo in parte intatta nonostante la frammentazione dello strato superiore: tale situazione risulta dannosa per le coltivazioni e per i frammenti di teli che rimangono sparsi nel terreno, perciò tali film non si sono diffusi in modo ampio sul mercato».
Metaponto
Nel Metapontino, dove predominano le colture frutticole e la fragola, i film biodegradabili, adatti per le orticole a ciclo breve, non sono molto utilizzati. Ma diverse aziende li hanno provati con successo, come alcune associate all’Op Jonica di Montescaglioso (Mt) che produce e commercializza ortive a marchio JonicaBio per negozi specializzati e grossisti. Così rileva Saverio Internò, agronomo dell’Op Jonica.
«Questi film sono indicati per colture orticole il cui ciclo è lungo 4-5 mesi. L’azienda agricola Tarantini Giuseppe e altre aziende metapontine li hanno utilizzati su zucchino e su melone retato: i film si sono rivelati in grado di non far crescere le erbe infestanti e di garantire ottime rese e alta qualità. L’azienda F.lli Dimallio srl di Stornara (Fg) li adopera comunemente su anguria e zucchino e non vuole affatto ritornare ai vecchi film plastici. Tutte le aziende che puntano alla innovazione tecnica apprezzano la comodità dello smaltimento naturale direttamente in campo!».
In Campania
Anche in Campania, nella Piana del Sele, un numero crescente di aziende orticole sta facendo ricorso ai film pacciamanti biodegradabili, sostiene Rosario La Manna, agronomo dell’Op Terra Orti di Eboli (Sa).
«Questi film non sono diffusissimi, ma da alcuni anni stanno occupando una superficie sempre maggiore. Alcune aziende li hanno impiegati su pomodorino da industria, altri su anguria, rivelandosi sempre in grado di contenere molto bene la crescita delle infestanti».
Per la coltivazione del pomodorino da industria il film viene steso a metà marzo, mentre il trapianto viene effettuato tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, con la raccolta a metà luglio.
«I film si sono dimostrati utili sia per impedire lo sviluppo delle infestanti sia per proteggere le bacche, evitando che tocchino il terreno e si sporchino. La durata del film in campo è di quattro mesi, a metà luglio mostra già qualche lacerazione».
Per l’anguria
Per l’anguria la stesura dei film viene effettuata, se il terreno è praticabile, già all’inizio di marzo. «I film sono apparsi capaci sia di contenere le infestanti sia di riscaldare il terreno aumentandone la temperatura di qualche grado, un fattore importante per anticipare la raccolta delle angurie, che avviene a fine giugno-inizi luglio. I film possono essere stesi anche per i trapianti di aprile, che porteranno alle raccolte di metà-fine agosto. In un caso e nell’altro durano efficacemente 4-5 mesi».
Dopo la raccolta e l’allontanamento delle piante e delle manichette, che sono posizionate sotto i film, questi vengono macinati con le lavorazioni del terreno per preparare il nuovo letto di trapianto e nel giro di poche settimane biodegradano naturalmente, sottolinea La Manna.«Nella rotazione colturale, le colture che seguono il pomodoro o l’anguria sono solitamente quelle in filiera di IV gamma, come pan di zucchero, indivia scarola, indivia riccia, radicchio, ecc., per le quali la Piana del Sele è una terra molto vocata. Può capitare che qualche pezzetto di film rimanga più tempo in campo prima di biodegradarsi, ma un’attenta informazione verso gli ispettori tecnici delle catene della Gdo italiana ed europea evita qualsiasi problema. Problemi che invece possono presentarsi se si utilizzano i film di polietilene, quindi non biodegradabili, perché, pur tirandoli via con accortezza, è facile che qualche pezzo rimanga in campo, senza ovviamente biodegradarsi, e non sia bello da vedere, soprattutto per quegli attenti ispettori. Anzi proprio la necessità di evitare tali problemi ha incentivato il ricorso ai film biodegradabili».
I film biodegradabili costano di più di quelli non biodegradabili, ma tale costo maggiore viene compensato da due vantaggi: non hanno alcun costo di rimozione, che è invece notevole per i film plastici, e non sono soggetti a smaltimento differenziato, che, pur non rappresentando un grande costo, è comunque un impegno e richiede tempo.
«Nell’utilizzo dei film biodegradabili – chiude La Manna – bisogna curare con particolare attenzione la preparazione del terreno, evitando asperità che in qualche modo possano lesionarli e romperli, perché hanno una minore resistenza meccanica. E comunque, a parità di qualità del terreno preparato, per la stesura del film biodegradabile occorre qualche mezz’ora in più per ettaro, perché è un film più delicato».
Biodegradabili in crescita
Nel Mezzogiorno cresce il loro utilizzo sulle colture orticole a ciclo breve per la pacciamatura del suolo